di Angela Condello e Tiziano Toracca
Qual è la cosa che detesti di più, del tuo lavoro?
Il fatto di non essere considerato una persona.
A. Nove, Mi chiamo Roberta, ho 40 anni, guadagno 250 euro al mese
Il lavoro rappresenta ab illo tempore una categoria antropologica e un aspetto essenziale nella vita dell’uomo1. Così come lo conosciamo oggi tuttavia – e cioè come perno della vita associata e come situazione giuridicamente tutelata – è «un’invenzione della modernità»2. Nella storia della letteratura occidentale, l’affermarsi del romanzo moderno – legato com’è all’ascesa della classe borghese – mostra bene la centralità simbolica assunta dal lavoro (e dalla famiglia) nella rappresentazione dell’esistenza quotidiana delle persone3.
Se è vero che la letteratura italiana ha affrontato più o meno esplicitamente questo tema in passato4, la mole di narrazioni contemporanee incentrate sul lavoro evidenzia tuttavia una netta discontinuità. È indiscutibile: a partire dalla metà degli anni novanta e in particolare in seguito al triennio “generazionale”5 dei movimenti (Genova 2001- Melfi 2004), la letteratura italiana ha dimostrato un rinnovato interesse per il tema del lavoro: ne è prova la quantità di testi pubblicati in questo periodo da decine di scrittori di diversa generazione. Anche la critica letteraria per parte sua ha contribuito a creare un discreto dibattito intorno a questo fenomeno attraverso alcuni recenti interventi meritevoli di attenzione6.
Le ragioni principali di questo fenomeno letterario vanno individuate nelle trasformazioni avvenute nel mondo del lavoro sotto la spinta della globalizzazione economica che ha seguito il crollo del regime comunista sovietico. In Italia, anche soltanto intuitivamente, il fatto che la letteratura abbia cominciato a interessarsi in maniera così esplicita al tema del lavoro in coincidenza con le principali riforme giuridiche in materia di occupazione non può essere taciuto o sottovalutato7. In maniera analoga, l’attenzione di Verga per le fasce marginali (si pensi all’influenza dell’Inchiesta in Sicilia di Franchetti e Sonnino su Rosso Malpelo) è più o meno coeva alla prima legislazione sociale italiana (le leggi sulla tutela delle donne e dei minori, sull’assicurazione contro gli infortuni sul lavoro e sul riposo settimanale e festivo) e l’interesse per l’industria negli anni sessanta da parte di molti intellettuali coincide con una legislazione protettiva e antifraudolente a tutela dei nuovi operai, legislazione il cui epicentro normativo, oltre e dopo la Costituzione, sarà lo statuto dei lavoratori (L. 20 maggio 1970, n. 300). È insomma altrettanto indiscutibile: in Italia (e nel mondo occidentale) negli ultimi venticinque anni (1990-2015) le condizioni lavorative della gran parte degli individui sono cambiate in maniera rilevante e traumatica. È proprio a partire dagli anni novanta, infatti, che la legislazione italiana in materia di lavoro «pare essersi posta come criterio guida quello di smontare il principio insito nella temibile affermazione per cui il lavoro non è una merce»8. Le principali tappe giuridiche e politiche di questa «ri-mercificazione del lavoro»9 sono sostanzialmente tre: la L. 24 giugno 1997, n. 196 (detta anche pacchetto Treu), il DLgs. 6 settembre 2001, n. 368 e la L. 14 febbraio 2003, n. 30 (quest’ultima, detta volgarmente legge Biagi, viene eseguita con il DLgs 10 settembre 2003, n. 276). Esse hanno introdotto la flessibilità e l’atipicità sistematica del rapporto di lavoro, hanno ammesso e favorito la sua somministrazione da parte di agenzie terze e interinali (e cioè da parte di soggetti interposti tra datore di lavoro e lavoratore) e hanno fortemente indebolito i legami di reciprocità e di solidarietà tra i lavoratori, vale a dire il potere di lotta e di rivendicazione delle “categorie” e del sindacato10.
Il «nuovo operaismo»11 da un lato – dove l’operaio per dirla con Antonio Pennacchi è ormai diventato un Mammut12 – e la diffusione del precariato dall’altro lato, caratterizzano in maniera complementare quella che Filippo La Porta ha chiamato «letteratura postindustriale»13. In molte opere narrative sul lavoro il discorso ruota attorno ai temi della flessibilità e della precarietà, vale a dire attorno alle categorie oggi più pertinenti – usate tanto dai giuslavoristi quanto dai sociologi – per qualificare non soltanto alcune nuove tipologie contrattuali introdotte dalla riforme ma anche la nuova prospettiva politica in materia di lavoro che quelle riforme hanno tracciato14. Parallelamente, quando rappresentano l’industria e la classe operaia gli scrittori tendono a evidenziare la fine di una stagione e l’ingresso in una nuova fase: Dismissione (2002) di Ermanno Rea resta al riguardo un caso esemplare15.
Come è stato recentemente notato da Raffaele Donnarumma in Ipermodernità, come non ha mancato di ribadire Angelo Ferracuti – uno dei maggiori esponenti della narrativa sul lavoro – e come aveva già in qualche modo evidenziato l’inchiesta pubblicata nel 2008 sul numero 57 di «Allegoria», l’interesse della letteratura per il tema del lavoro rientra anzitutto in una più generale tendenza al recupero di una funzione testamentaria, documentaria e di denuncia della letteratura16. Il punto su cui riflettere, a nostro avviso, è soprattutto lo stravolgimento subito dal ruolo del lavoro nell’esistenza degli individui e in particolare l’indebolimento del legame tra lavoro e identità sociale dei soggetti, la “smobilitazione dell’uomo” o, per dirla con uno dei più celebri titoli di Richard Sennet: The Corrosion of the Charachter17. In questa prospettiva – dove lavoro e identità convergono – il contributo della letteratura è notevole: l’originale capacità della finzione letteraria di rappresentare il mondo interiore delle persone – il «tesoro dello psichico»18 – può permettere infatti di dare forma, legittimità e veridicità a istanze sotterranee proprie di soggetti sulla cui esistenza si riflettono i cambiamenti dell’ordine giuridico; istanze che il diritto fatica a contenere e a ricomprendere e che sfociano in conflitti. Il precariato e la fine della classe operaia interessano la letteratura perché si riflettono sull’identità sociale degli individui e stabiliscono una nuova condizione esistenziale. Se è vero che l’identità sociale si produce in relazione alle varie dimensioni in cui un individuo agisce all’interno del mondo (famiglia, professione, associazioni) e che si basa su meccanismi di reciproco riconoscimento fondati sull’interazione fra individui in uno spazio comune e sui processi di integrazione che tale interazione comporta, è altrettanto vero che nell’era moderna l’identità sociale dei soggetti si è costruita essenzialmente intorno al lavoro19. Riconosciamo gli altri e veniamo riconosciuti in relazione al nostro ruolo sociale e dunque anzitutto in relazione alla nostra professione: per questo la precarietà del lavoro destabilizza l’apparato identitario e invita a capirne le conseguenze sul piano esistenziale.
Proprio sul piano esistenziale si manifesta più chiaramente l’incidenza della instabilità e della discontinuità lavorativa (e dunque sociale) sull’individuo contemporaneo. Non è a questo proposito irrilevante che – cercando una definizione dell’identità umana – Hannah Arendt la trovi nella «rivalutazione dell’agire». La base di tale rivalutazione è la “pluralità”, sia della condizione umana sia del reale. La condizione umana è plurale perché le facoltà e le attività umane – pensare, agire, volere, giudicare, amare, creare etc. – sono diverse e non esclusive. Il mondo è plurale perché plurimi sono gli esseri che vi abitano: la pluralità è la legge della terra. Il primato dell’agire presuppone come indispensabile la pluralità: agire è impossibile senza altri uomini che partecipino, assistano, rispondano, reagiscano o si oppongano all’atto. L’agire costituisce l’uomo nella sua socialità. Attraverso l’agire l’individuo appare agli altri e si rende manifesto nella sua identità e nella sua differenza. Se l’azione è centrale per la definizione dell’identità, è perché nell’agire relazionale si forma, dinamicamente, il profilo sociale di ciascuno di noi: nelle esperienze, nella loro continuità e discontinuità, nelle loro evoluzioni20. Per questo il lavoro è il dispositivo centrale di produzione dell’identità sociale21. Nella teoria politica arendtiana, la prima condizione dell’esistenza umana è l’ambiente naturale, organico e inorganico, in cui viviamo. L’attività che corrisponde a tale condizione è il lavoro, con cui la specie umana assicura la propria sopravvivenza e costituisce le proprie relazioni con gli altri individui (homo laborans).
Nella prospettiva in cui lavoro e identità sono in una relazione costante ma precaria e si definiscono reciprocamente, la narrativa sul lavoro è allora il discorso che meglio può rappresentare l’interazione tra vita sociale e vita interiore e dunque – in senso arendtiano – l’esistenza nel suo senso più compiuto: come “esistono” insomma i personaggi il cui ambito di azione è frammentato e precario?
1 Nel mondo antico, sulla base soprattutto della distinzione tra attività intellettuale e attività pratica, il lavoro è proprio degli schiavi e non degli uomini liberi (fatte salve le mitizzazioni come quella virgiliana del lavoro agricolo) ed è ostacolo alla politica e all’etica (resta infatti confinato alla sfera privata). Nella tradizione cristiana il lavoro è considerato ambiguamente, ora come il sudore e la fatica in cui consiste la condanna biblica (Genesi, III, 17-20) ora come lo strumento principale con cui l’uomo partecipa alla costruzione della comunità cristiana. Cfr. P. F. Palumbo, L’organizzazione del lavoro nel mondo antico e altri saggi, Roma, Europa, 1967; V. Tranquilli, Il concetto di lavoro da Aristotele a Calvino, Milano-Napoli, Ricciardi, 1979; A. Caprioli, L. Vaccaro (a cura di), Il lavoro. Filosofia, Bibbia e teologia, Brescia, Morcelliana, 1983; P. Cherchi, Lavoro e letteratura nel Rinascimento e S. Barsella, Ars and Theology: Work, Salvation, and Social Doctrine in the Early Church Fathers, in From Otium and Occupatio to Work and Labor in Italian Culture, in «Annali d’Italianistica» n. 32, 2014, pp. 31-52 e 53-72.
2 A. Gorz, Metamorfosi del lavoro [1988], Torino, Bollati Boringhieri, 1992, p. 21. È già a partire dal basso Medioevo, tuttavia – con lo sviluppo delle città e delle botteghe artigiane – che il lavoro viene organizzato e disciplinato attraverso le corporazioni e che diventa l’epicentro simbolico del sistema sociale (cfr. R. Fossier, Il lavoro nel Medioevo [2000], Torino, Einaudi, 2002). Di lì a poco inoltre, con l’avvento delle banche senesi e fiorentine, la subordinazione del lavoro artigiano al traffico del mercante e l’affermazione della società dei mercanti (cfr. U. Santarelli, Mercanti e società tra mercanti, Torino, Giappichelli, 1992 e A. J. Gurevič, A. Giardina, Il mercante dall’Antichità al Medioevo, Roma-Bari, Laterza, 1994) dà inizio secondo molti (tra cui Werner Sombart) a un’organizzazione capitalistica, sebbene preindustriale, del lavoro.
3 Cfr. soprattutto E. Auerbach, Mimesis [1946], Torino, Einaudi, 2000 e I. Watt, Le origini del romanzo borghese [1957], Milano, Bompiani, 1984. Cfr. anche Ch. Taylor, Radici dell’io. La costruzione dell’identità moderna [1989], Milano, Feltrinelli, 1993.
4 Il tema del lavoro nella letteratura italiana assume un certo rilievo alla fine del XIX secolo concentrandosi in particolare: I) sul lavoro dei campi e più in generale sullo sfruttamento del lavoro in società feudali, rurali o arcaiche (è quello che avviene nell’opera di Verga e nelle opere che trattano esperienze di marginalità e di esclusione come per esempio Il ventre di Napoli di Matilde Serao [1884] o lo “scapigliato” e collettivo Ventre di Milano [1888] in cui è centrale la voce di Cletto Arrighi); II) sulla figura dell’impiegato (in linea con la narrativa francese, russa e americana del XIX secolo: Balzac, Gogol’ e Melville soprattutto) figura protagonista oltre che in alcune opere di Matilde Serao, Emilio De Marchi e Delio Tessa, in altrettante opere di grandi autori del modernismo italiano ed europeo (Tozzi, Pirandello, Svevo, Kafka, Joyce). Fatte salve alcune opere del filone realista degli anni trenta (Tre operai di Carlo Bernari [1934], Il capofabbrica di Romano Bilenchi [1935], Gente in Aspromonte di Corrado Alvaro [1930] e Fontamara di Ignazio Silone [1930], quest’ultime due con protagonisti pastori o contadini-braccianti) e fatte salve alcune opere del filone neorealista degli anni cinquanta (Le terre del sacramento di Francesco Jovine [1950] o Metello di Vasco Pratolini [1954] per esempio), il tema del lavoro diventa centrale nella letteratura italiana degli anni sessanta del XX secolo grazie all’opera e alle riflessioni di numerosi autori e intellettuali, in particolare: Luciano Bianciardi, Tommaso Di Ciaula, Luigi Davì, Franco Fortini, Lucio Mastronardi, Ottiero Ottieri, Goffredo Parise, Vittorio Sereni, Leonardo Sinisgalli, Paolo Volponi. Il saggio di Elio Vittorini, Industria e letteratura, pubblicato nel 1961 sulla rivista «Il Menabò» (III, 4, pp. 13-20) può essere considerato la cifra simbolica di questa stagione.
5 Cfr. Dario Danti, Federico Tomasello, Francesca Foti, Hans, Michele Magnani, Niccolò Pecorini, Falso movimento. Dentro lo spettacolo della precarietà, Roma, DeriveApprodi, 2005. Si veda anche: Carola Susani, Christian Raimo, Tommaso Pincio, Nicola Lagioia, Sara Ventroni, Cristiano de Majo, Fabio Viola, Peppe Fiore, Marco Di Porto, Emanuele Trevi, Marco Rovelli, Michela Murgia, Stefano Liberti, Elena Stancanelli, Antonio Pascale, Alessandro Leogrande, Giordano Meacci, Valerio Mattioli, Giorgio Falco, Lanfranco Caminiti, Sono come tu mi vuoi. Storie di lavori, Roma-Bari, Laterza, 2009.
6 In particolare negli ultimi anni sono stati organizzati alcuni convegni dedicati al tema e sono usciti: R. Voza (a cura di), Lavoro, diritto e letteratura italiana, Bari, Cacucci, 2008; il n. 1-2 di «Bollettino ’900», Bologna 2009 (disponibile in rete); P. Chirumbolo, Letteratura e lavoro, Soveria Mannelli, Rubbettino, 2010; M. Fieni, Il tema del lavoro nella letteratura italiana contemporanea, Milano, Principato, 2010; S. Contarini (a cura di), Letteratura e azienda. Rappresentazioni letterarie dell’economia e del lavoro nell’Italia degli anni 2000, in «Narrativa» n. 31-32, 2010; C. Panella, Il ritorno del lavoro nella letteratura italiana: note intorno al nuovo volume di «Narrativa» su Letteratura e azienda, in «Italogramma», vol. 1, 2011 (disponibile in rete) e Id., La rappresentazione letteraria del lavoro e la produzione narrativa dei lavoratori, in Giuseppe Sertioli, Carla Vaglio Marengo e Chiara Lombardi (a cura di) Comparatistica e intertestualità. Studi in onore di Franco Marenco, Alessandria, Edizioni dell’Orso, 2010; G. Bigatti, G. Lupo (a cura di), Fabbriche di carta. I libri che raccontano l’Italia industriale, Roma-Bari, Laterza, 2013; N. Bouchard, V. Ferme (a cura di), From Otium and Occupatio to Work and Labor in Italian Culture cit.; S. Contarini, M. Jansen, S. Ricciardi (a cura di), Le culture del precariato, Verona, Ombre corte, 2015; Precarietà. Per una critica della società della precarietà, a cura di S. Contarini e L. Marsi, Verona, Ombre corte, 2015.
7 È quanto fa, per esempio, Nicola Lagioia in un’intervista rilasciata a Paolo Chirumbolo. Alla richiesta di dare una spiegazione a questa nuova narrativa sul lavoro lo scrittore risponde: «Si lavora per quattro, cinque, quindici ore al giorno, e dunque è normale che un’attività che riempie tanto del nostro tempo diventi un argomento letterario. Il lavoro, in definitiva, è solo uno dei tanti prismi attraverso il quale far passare l’immortalità delle passioni e dei rapporti umani: ambizione, avidità, coraggio, servilismo, prevaricazione, tradimento, la classica tavolozza shakespeariana trova insomma nel lavoro un buon punto d’appoggio»., in P. Chirumbolo, Letteratura e lavoro cit. p. 223.
8 L. Gallino, Il lavoro non è una merce, Roma-Bari, Laterza, 2007, p. 58. «Così [prosegue Gallino] recitava il primo comma della Dichiarazione di Filadelfia del 1944, “concernente le finalità e il proposito della Organizzazione internazionale del lavoro”».
9 Ivi., p. 63. Di mercificazione e reificazione del lavoro come effetto della grande trasformazione indotta dalla separazione tra lavoratori e mezzi di sussistenza parla anche Karl Polanyi in Id., La grande trasformazione. Le origini economiche e politiche della nostra epoca [1944], Torino, Einaudi, 2000, in particolare alle pp. 88-98.
10 Si veda, per un inquadramento generale, M. V. Ballestrero, G. De Simone, Diritto del lavoro, Torino, Giappichelli, 2012. Più specificamente sul tema delle tutele rimandiamo a G. De Simone, Quale stabilità per chi: la giustificazione delle tutele differenziate, in M. V. Ballestrero (a cura di), La stabilità come valore e come problema, Torino, Giappichelli, 2007, pp. 53-80; M. Colonna, E. Pugliese (a cura di), Il futuro del lavoro in Europa. Occupazione, diritti civili, diritti sociali, Napoli, Edizioni Scientifiche Italiane, 2007; per quanto riguarda invece l’opposizione dicotomica vita precaria-vita stabile, della stessa autrice, Precarietà vs. stabilità. Ma che genere di stabilità?, in «Lavoro e diritto», 2010, pp. 377-397. Si vedano anche le riflessioni di Giovanni Bonato, Luca Marsi e Caroline Savi in appendice al numero 31-32 di «Narrativa», 2010 cit.
11 V. Fulginiti, Senza voce. La letteratura della crisi negli anni Duemila, in «Su la testa», 14, 30 marzo 2011, pp. 15-19 (ora disponibile on line). Sul passaggio a un nuovo operaismo nella letteratura italiana contemporanea si vedano anche le riflessioni di Morena Marsilio, in particolare: La crisi della figura operaia tra vecchio e nuovo millennio, scaricabile dal sito di «academia.edu». Per molti aspetti, uno dei romanzi più efficaci in questa prospettiva è Piove all’insù di Luca Rastello, Torino, Bollati Boringhieri, 2008.
12 A. Pennacchi, Mammut, Roma, Donzelli, 1994.
13 F. La Porta, Albeggia una letteratura postindustriale, in V. Spinazzola (a cura di), Tirature 2000. Romanzi di ogni genere: dieci modelli a confronto, Milano, Il Saggiatore, 2000.
14 In proposito restano fondamentali le riflessioni di Ulrich Beck, Zygmunt Bauman, Pierre Bourdieu, André Gorz, Jeremy Rifkin, Richard Sennet e in Italia soprattutto Luciano Gallino e Aris Accornero. Cfr. anche M. A. Toscano (a cura di), Homo Instabilis. Sociologia della precarietà, Milano, Jaca Book, 2007. Scrive Bauman: «qualunque fosse, tra le sue molte virtù, quella che il lavoro aveva elevato al rango di principale valore dei tempi moderni, la sua meravigliosa, o meglio magica, capacità di dare forma all’informe e durata al transitorio si stagliava su tutte. Grazie a tale capacità, si poté assegnare al lavoro un ruolo prioritario, finanche decisivo, nell’ambito della moderna ambizione di soggiogare, imbrigliare e colonizzare il futuro al fine di sostituire il caos con l’ordine e la causalità con una sequela di eventi prevedibile (e dunque controllabile)», Id., Modernità liquida [2000], Roma-Bari, Laterza, 2003, p. 156.
15 Dal romanzo di Rea, Gianni Amelio ha tratto il bel film La stella che non c’è (2006). Si vedano: A. Accornero, Era il secolo del lavoro, Bologna, il Mulino, 1997; P. Bourdieu, Controfuochi, Roma, Reset, 1998; C. Cristofori (a cura di), Operai senza classe. La fabbrica globale e il «nuovo capitalismo». Un viaggio nella ThyssenKrupp Acciai Speciali di Terni, Milano, FrancoAngeli, 2009. In questa prospettiva si leggano anche: F. Dezio, Nicola Rubino è entrato in fabbrica, Milano, Feltrinelli, 2004 e Silvia Avallone, Acciaio, Milano, Rizzoli, 2010.
16 R. Donnarumma, Ipermodernità, Bologna, il Mulino, 2014, in particolare alle pp. 201-205; R. Donnarumma, G. Policastro (a cura di), Ritorno alla realtà? Narrativa e cinema alla fine del postmoderno, in «Allegoria», n. 57, gennaio–giugno 2008, pp. 7-93; S. Gambacorta, Angelo Ferracuti si racconta, intervista disponibile on line: https://altrimenti.wordpress.com/2011/04/26/angelo-ferracuti-si-racconta/. Su questo si veda anche il volume collettaneo: L. Somigli (a cura di), Negli archivi e per le strade. Il ritorno alla realtà nella narrativa di inizio millennio, Roma, Aracne, 2013.
17 S. Zoli, Il lavoro smobilita l’uomo. La rapida svolta dall’orgoglio alla paura in una società precaria, Milano, Longanesi, 2008; R. Sennet, The Corrosion of the Character. The Personal Consequences of Work in Late Capitalism, New York-London, Norton & Company, 1998.
18 Cfr. P. Ricoeur, L’identité narrative, in «Revue des sciences humaines», 221, 1, 1991, pp. 35-47. Ottimi spunti in A. Baldini (a cura di), Narrativa e vita psichica, in «Allegoria» n. 60, 2009, pp. 7-165.
19 Cfr. A. Gorz, Metamorfosi del lavoro cit., p. 21 ss.
20 Il tema della costituzione sociale e politica dell’individuo, e soprattutto del governo delle vite e delle esistenze, è centrale per tutta la riflessione cosiddetta “biopolitica”. Nell’equazione per cui il al lavoro corrisponde la descrizione della identità segue l’ipotesi per cui non si è mai totalmente estranei alla logica anche governamentale del capitalismo e comunque più in generale alla logica economica (che assorbe, include, contamina, conquista). Con la crisi del lavoro inteso come interesse pubblico, la relazione fra individuo è lavoro non è più una relazione, ma un rapporto di co-implicazione. Si veda su questo L. Bazzicalupo, Il governo delle vite. Biopolitica ed economia, Roma-Bari, Laterza, 2006; e, della stessa autrice, L’economia come logica di governo, in «SpazioFilosofico» 2013, pp. 21- 29.
21 H. Arendt, Vita activa. La condizione umana, con una introduzione di A. Dal Lago, Milano, Bompiani, 2012. L’agire inteso in questo senso consente il rivelarsi dell’agente, perché questi appare agli altri e si rende manifesto nella sua identità e nella sua differenza proprio attraverso l’azione, la relazionalità, la vita comunitaria. L’agire in isolamento è una contraddizione in termini. L’agente non può che essere nell’atto, e che si rivela come tale “solo” quando agisce. Hannah Arendt parte dal presupposto che alle fonti della nostra cultura, la Grecia pre-platonica, le tre attività della “vita activa” fossero collocate in una gerarchia di fatto che vedeva al primo posto l’agire in comune o “politeia”, al secondo l’operare e al terzo il lavoro.