Il socialismo ottocentesco si afferma contro l’astrazione della società capitalistica e, più in generale, della forma di vita moderna secondo cui “tutto ciò che è solido si dissolve nell’aria”. Nei confronti di un universalismo astratto, sotto l’imperio della forma merce (che racchiude, stando a Marx, il tempo di lavoro separato dalla produzione di questo o quell’oggetto particolare, cioè un lavoro astratto che è tutt’uno con il lavoro alienato), e del denaro come sua estrema manifestazione fenomenica, il socialismo fa valere il vissuto della condizione operaia, della solidarietà di classe, della cooperazione, del mutuo soccorso. In altre parole, i legami concreti.
Non sorprende dunque che Finelli e Pezzella (il secondo commentando un libro del primo, come si può vedere qua sotto) concentrino l’analisi del capitalismo contemporaneo sul suo carattere di astrazione (si pensi all’odierna finanziarizzazione dell’economia) che lo avrebbe condotto a superare le proprie contraddizioni, prima di tutte quella tra le forze produttive e i rapporti di produzione che – insieme con la famosa “caduta tendenziale del saggio di profitto” – era per Marx la contraddizione fondamentale che avrebbe aperto le porte a un mondo postcapitalistico.
Ci sono tuttavia delle obiezioni possibili a questo discorso che si sforza, mediante la sottolineatura di un aspetto come quello dell’astrazione, di salvare la teoria di Marx dai segni inconfondibili del tempo trascorso.
La prima è che la modernità capitalistica – via via, quasi per sua fatale logica interna nell’impossibilità di rappresentare un rivoluzionamento continuo dei legami tradizionali –, anziché proiettare se stessa come società astratta, si è sempre di più palesata come una cultura particolare tra altre. Una cultura che ha – è vero – la notevole capacità di contagiare, ibridandole, le culture tradizionali presenti sul pianeta ma, al tempo stesso, non ha alcuna possibilità di liquidarle. Il cosiddetto progresso – quello in cui Marx credeva quando sosteneva che il colonialismo britannico in India avrebbe avvicinato il momento della rivoluzione sociale, con la creazione in quel paese di un proletariato industriale – si è arrestato perché la modernità non portava in sé, a differenza di quanto ipotizzato da Marx, quella spinta radicale alla rottura delle tradizioni che, nell’Ottocento, poteva ancora apparire travolgente. Il Novecento, con la storia delle sue rivoluzioni andate a male e con un processo di decolonizzazione che non ha mantenuto le promesse, ha dovuto prendere atto di questa realtà . Perfino quella che secondo Marx era una condizione preliminare essenziale nell’affermarsi del capitalismo come lui lo intendeva – cioè l’esistenza di una forza lavoro libera sul mercato – si è rivelata non essere affatto acquisita. Come Pezzella non manca di rilevare, senza trarne però le necessarie conseguenze teoriche, la schiavitù vera e propria, i rapporti servili (per nulla astratti, perché, nella dilatazione della sfera dei servizi “alla persona” come nel caso delle badanti immigrate, si conferma il tradizionale rapporto padrone-servo) coesistono oggi con il lavoro immateriale di tipo digitale, dissolvendo peraltro quella concentrazione operaia nella grande fabbrica che, in ipotesi, avrebbe dovuto essere il centro irradiatore della trasformazione sociale.
Una seconda obiezione da muovere al discorso di Finelli e Pezzella è che la nuova concretezza incarnata dalla forma neoliberale di capitalismo che abbiamo sotto gli occhi, non si lascia decodificare secondo una chiave marxiana (o mediante una “psicopolitica”, secondo la combinazione, che tanta fortuna ebbe nella seconda metà del Novecento, di Marx con Freud), ma va letta nei termini di un’antropologia culturale, in cui l’economia – il denaro in particolare – precipita in cultura, facendosi essa stessa una specie di collante tradizionale basato su forme consuetudinarie di servitù volontaria. Se si abbandona la teoria del valore di Marx, la sua concezione del denaro come mezzo della valorizzazione capitalistica, se si considera piuttosto il denaro un mezzo di comunicazione simbolica tra altri – che difficilmente potrebbe essere scalzato ritornando al baratto, come pure in parte accadde in Argentina, una quindicina di anni fa, durante la grande crisi di default – il punto non starebbe nell’invertire la marcia verso il concreto (come auspicato da Finelli e Pezzella) ma nel prospettare forme di astrazione sociale che si affranchino da un “concreto” malamente incarnato dall’adesione a una forma di vita in misura maggiore o minore ibridata con il passato.
È in sostanza la prospettiva dell’utopia, di un socialismo utopico. Che, rispetto al mondo di una caotica solidità bloccata, si presenta come un’enorme astrazione svincolata dalle forme culturali esistenti: una pura costruzione intellettuale. Non ci sono le contraddizioni oggettive, neppure le forze storiche, politiche e psichiche, che rendano l’utopia praticabile se non per barlumi in una versione pragmatica che, come nell’Egitto del 2011, talvolta assume le sembianze di una rivolta generalizzata; c’è soltanto il detto del Galileo di Brecht: “Se così è, così non deve rimanere”. Nel senso che una cultura antropologica è solo una tra le figure possibili della società in cui proiettarsi con l’immaginazione.