di Giancarlo Scarpari
«La ragione specifica della più rigorosa repressione risiede nell’obbietto di questi delitti, il patrimonio, la cui più efficace tutela rientra in quel programma di rafforzamento dei cardini dell’odierna organizzazione sociale, che è propria del Governo Nazionale». Così recitava la Relazione della Commissione ministeriale incaricata di fornire un parere sul progetto preliminare del codice penale che Alfredo Rocco stava preparando.
Tra i delitti che offendevano il patrimonio privato, il furto rivestiva, da sempre, un ruolo privilegiato e il ministro aveva trovato sul tema un terreno abbondantemente arato: lo Statuto albertino aveva ribadito che la proprietà era un diritto inviolabile, il codice Zanardelli aveva minutamente descritto tutte le modalità (una trentina!) con cui il furto poteva essere realizzato, Vincenzo Manzini, il penalista più accreditato del tempo e collaboratore di Rocco nella redazione dei codici, aveva dedicati alcuni volumi a quel delitto e alla sua evoluzione nella storia.
Il ministro fascista aveva mantenuto l’impianto repressivo precedente, eliminato alcune ipotesi datate, riformulando le numerose aggravanti ed elevando in tali casi il massimo della pena, che ora poteva comportare una condanna sino a 10 anni di carcere. Rispetto a questa tutela rafforzata del diritto di proprietà, quella riservata ai diritti della persona era disciplinata invece in modo più blando: in particolare, le lesioni prodotte colposamente potevano essere sanzionate con una semplice multa, quelle volontarie, nei casi lievi non erano procedibili d’ufficio e per quelle gravi – che comportavano anche un pericolo di vita o l’indebolimento permanente di un senso o di un organo – la pena della reclusione non poteva superare i 7 anni.
Rocco estendeva poi al proprietario aggredito nei beni l’istituto della legittima difesa che in precedenza riguardava le aggressioni rivolte alla sola persona: la norma tutelava anche l’intervento effettuato a difesa del patrimonio di terzi («non è punibile chi ha commesso il fatto per esservi stato costretto dalla necessità di difendere un diritto proprio od altrui contro il pericolo attuale di un’offesa ingiusta»), ma subordinava la legittimità della reazione a un ben preciso criterio («sempre che la difesa sia proporzionale all’offesa»): solo in presenza di una tale positiva valutazione, il soggetto che, per sventare l’aggressione aveva commesso un reato, veniva dichiarato non punibile.
Il passaggio dal regime fascista allo Stato democratico sembrava dover rimettere tutto in discussione; e l’avvento della Costituzione repubblicana annunciava cambiamenti sostanziali che avrebbero dovuto avere ricadute anche sotto il profilo codicistico: il principio personalistico che era alla base della nuova Carta e la differente valutazione da essa riservata al diritto di proprietà – previsto dall’art. 42 e non più ricompreso tra i diritti fondamentali – stabilivano, infatti, una ben diversa gerarchia di valori, con logica e conseguente incidenza sulla tutela assegnata agli stessi anche in sede penale.
Ma la costituzione materiale del paese avrebbe percorso ben altre strade. Per decenni, infatti, rispetto ai reati contro il patrimonio, il codice Rocco è rimasto inalterato e la stessa Corte costituzionale, pure innovativa in altri settori, ha ribadito che la tutela rafforzata riservata dal codice penale al diritto di proprietà non contrastava coi principi della Carta, poiché la sperequazione tra pena e reato poteva essere censurata solo quando mancava la «benché minima ragionevolezza». Neppure una condanna a tre anni di reclusione per un furto di mele in un campo recintato era però parsa «irragionevole» al giudice delle leggi, né aveva spinto il Parlamento a intervenire con modifiche dirette sul reato in esame; solo, dopo un quarto di secolo dall’entrata in vigore della Costituzione, le Camere, pur mantenendo inalterate quelle ipotesi di reato, avevano consentito al giudice di cancellare, volta per volta e in presenza di particolari presupposti, le varie aggravanti, «bilanciandole» con la concessione di una qualche attenuante e di applicare in quel caso al condannato una pena «più contenuta».
Se quindi i governi della Repubblica dimostravano di non avere interesse, né la forza, per intaccare anche marginalmente il «terribile diritto» della proprietà privata e la sua tutela penale, la giurisprudenza, almeno, era riuscita a fornire una guida «costituzionalmente orientata» alla questione dell’autodifesa privata, posta in essere dai singoli proprietari.
Il principio di proporzionalità nella legittima difesa, l’abbiamo visto, era il perno di tutto l’istituto; e questo per l’interprete comportava una duplice operazione: valutare il peso diverso dei beni giuridici in conflitto (quello dell’incolumità personale o quello di natura patrimoniale); misurare, poi, rispetto al tipo di offesa, la congruità dei mezzi usati dall’aggredito rispetto a quelli a sua disposizione. In altri termini: quando era in gioco per entrambi i soggetti il bene dell’incolumità personale, andava valutata accuratamente la proporzionalità tra i mezzi utilizzati dall’uno e dall’altro (armi proprie o improprie, coltelli o pistole, ecc.) e il contesto in cui era avvenuto lo scontro. Ma quando si fronteggiavano beni eterogenei e all’aggressione al patrimonio si era risposto con un’aggressione alla vita, la giurisprudenza era concorde nel ritenere che la consistenza dell’interesse leso fosse «enormemente più rilevante, sul piano della gerarchia dei valori costituzionali, di quello difeso e che il danno inflitto (morte o lesione personale) avesse un’intensità di gran lunga superiore a quella del danno minacciato (la sottrazione di una cosa)»: in tale caso, il principio di proporzionalità non poneva all’interprete problemi di sorta e la distinzione tra l’essere e l’avere manteneva tutta la sua pregnanza e la sua valenza positiva.
Senonché anche questa distinzione col tempo sembra essere venuta meno: dapprima lentamente, poi sempre più velocemente, i «corpi intermedi» – famiglia, partiti, sindacato – sono entrati in crisi, la «società dei cittadini», legata ancora all’osservanza delle regole, ha ceduto sempre più il passo alla «società degli individui», che delle regole dimostra di fare volentieri a meno: la costituzione materiale ha puntato esplicitamente a rovesciare i principi e le gerarchie di quella formale, ricollocando al centro l’impresa e il diritto di proprietà, esaltando l’avere a scapito dell’essere. Questa linea di tendenza, cresciuta nella società, ha trovato poi la propria “rappresentanza politica” quando un imprenditore miliardario è arrivato al governo per difendere innanzitutto le sue proprietà, alleandosi con un partito che dell’egoismo territoriale ha fatto la propria bandiera e la ragione dei suoi consensi.
È perciò sui reati predatori, quelli consumati nelle strade o nelle abitazioni dalle «classi pericolose» – non quelli realizzati dai colletti bianchi negli studi e negli uffici con le bancarotte, le corruzioni e le evasioni miliardarie – che, da tempo, si accendono sempre più spesso le luci dei riflettori: questi delitti contro il patrimonio sono certo in aumento, soprattutto in anni di crisi e di vistose diseguaglianze, ma crescono molto di più nella percezione sociale, perché minacciano i beni e il sentire della “gente comune”, penetrano nel domicilio e violano la sfera privata delle persone. E poiché spesso gli autori di queste azioni sono extracomunitari, su questa base reale hanno lavorato in modo ossessivo e martellante gli imprenditori della paura, soprattutto attraverso le televisioni e la stampa locale, coniugando immigrazione e criminalità, dopo aver seminato odio e razzismo nelle periferie, nei piccoli centri, nelle località isolate delle campagne.
In vista delle elezioni del 2001, il centrosinistra, nel tentativo di inseguire quest’ondata securitaria, varava all’ultimo momento una legge che riformulava il «reato di furto in abitazione e quello con strappo», incorporando le precedenti aggravanti e rendendolo così autonomo; questa riforma aveva il fine giuridico di escludere qualsiasi “bilanciamento” di pena per il ladro, anche nel caso gli fossero riconosciute, per la giovane età o per l’incensuratezza, le attenuanti generiche, ma aveva, soprattutto, una valenza simbolica, sì da poter presentare all’elettore l’immagine del «nuovo partito della “fermezza».
Questa inutile esibizione di muscoli non otteneva, ovviamente, l’effetto sperato, poiché l’imitazione dell’originale non poteva intaccare i consensi per i proprietari del marchio, che tornavano, infatti, rafforzati al governo dello Stato; e così la Lega poteva disporre, a Roma, con Maroni agli Interni e Castelli alla Giustizia, di due leve decisive per garantire la sicurezza tanto invocata dagli elettori impauriti.
Senonché, accortisi ben presto che i reati predatori non diminuivano, che cresceva l’afflusso degli immigrati e che, malgrado i posti chiave occupati all’interno dello Stato, i suoi ministri non riuscivano ad arginare i fenomeni come promesso, la Lega decideva di mutare registro, puntando prima a realizzare un’autodifesa territoriale (facendo nascere con grande clamore le ronde padane, un velleitario progetto reclamizzato al suo sorgere e sepolto in silenzio dopo le prime inutili esperienze), impegnandosi poi a rafforzare l’autodifesa privata (ponendo mano all’istituto della legittima difesa).
Nel 2006, ancora una volta in piena campagna elettorale, il governo di destra faceva perciò approvare dal Parlamento la legge 13.02.2006, che doveva «riconoscere al cittadino il diritto naturale all’autodifesa, restituendogli la sovranità almeno nel proprio domicilio» (così leggesi nei lavori preparatori); richiamando espressamente la precedente riforma del centrosinistra sul furto in appartamento, il legislatore ne ampliava la nozione (il cittadino riacquistava «la propria sovranità» non solo nella casa di abitazione, ma anche nei luoghi ove svolgeva la propria attività, professione o impresa), ma, soprattutto, per questo particolare caso di legittima difesa, stabiliva una presunzione assoluta di proporzionalità: se la parte offesa reagiva con un’arma legittimamente detenuta per proteggere la propria o l’altrui incolumità e se la sottrazione dei beni avveniva con pericolo di aggressione, la reazione doveva considerarsi legittima.
Il legislatore semplificava, ma non risolveva, un problema ben altrimenti complesso: il magistrato non poteva più valutare la proporzionalità o meno della reazione (art. 52 c. 2 c.p.), ma, per i principi generali della legittima difesa (art. 52 c.1 c.p.), doveva comunque accertare la «necessità» della risposta e l’«attualità» del pericolo; inoltre il tessuto normativo di contorno contemplava i casi di «legittima difesa putativa», di «eccesso colposo di legittima difesa» e le difficoltà interpretative nei processi non diminuivano.
Ma tutto questo non interessava a chi aveva voluto la riforma: trattandosi di una legge manifesto, importante non erano le possibili ricadute sul sistema, quanto il messaggio in tal modo lanciato: era stata tolta la possibilità al giudice di valutare la proporzionalità della reazione, il cittadino adesso poteva usare le armi e al teleutente si faceva credere che poteva lecitamente sparare quando scopriva qualcuno intento a rubare la sua auto sotto casa. Così ogniqualvolta un ladro o un rapinatore veniva ferito o ucciso, immediatamente, senza neppure essere a conoscenza delle concrete modalità del fatto, scattava una «mediatica presunzione di innocenza»: concittadini e assessori esprimevano la loro solidarietà allo sparatore, i vicini di casa ne illustravano il buon carattere, i talk show locali lo eleggevano a esempio.
I casi inevitabilmente si moltiplicano, ma le sentenze smentiscono le facili attese: a un rigattiere che scorge due “nomadi” intenti a rubare il rame nel suo magazzino e che scarica non uno, ma 14 colpi di pistola non viene riconosciuta la legittima difesa: quando viene condannato (in primo grado), il paese si indigna, un consigliere regionale di An lo addita come simbolo del cittadino onesto vittima dei malviventi e dello Stato e Salvini organizza una fiaccolata in suo onore; nemmeno all’imprenditore che spara col fucile dal balcone contro un albanese che tenta di sottrargli l’auto parcheggiata in strada, uccidendolo, viene, ovviamente, riconosciuta l’invocata scriminante (si tratta, infatti, di un caso di scuola di omicidio volontario); e allora Salvini, quando la condanna diviene definitiva, raccoglie diecimila firme, Mediaset funge da volano e il leader della Lega chiede al presidente della Repubblica di concedere la grazia al condannato.
Sui social, nel frattempo, le critiche e gli insulti ai magistrati «lontani dal sentimento popolare» si sprecano; la Lega chiede poi, a gran voce, di cambiare la norma sulla legittima difesa, dimenticando che quella vigente reca proprio la sua firma; quando poi un giudice di Padova condanna un tabaccaio per «eccesso colposo di legittima difesa» (un ladro era stato ucciso mentre, di notte, stava per uscire dal negozio, dopo essersi impadronito della cassa), il magistrato viene ingiuriato via Internet, paragonato ai tagliagole dell’Isis e variamente intimidito, il sindaco Bitonci si schiera a fianco del tabaccaio e annuncia che intende armarsi a sua volta (e il «Corriere» subito ci informa con quanto impegno il primo cittadino si stia allenando a sparare); la Lega, dal canto suo, improvvisa l’ennesimo disegno di legge volto a stabilire che anche l’«eccesso colposo» deve essere considerato un comportamento legittimo.
È un crescendo continuo, che prescinde dai fatti, che impedisce ogni confronto e che fa ammutolire anche gli eventuali dissenzienti: questo “sentimento popolare”, alimentato di continuo dai media (per l’audience, per le ricadute politiche, ecc.) non trova rappresentanza solo in alcuni partiti, ma conquista solide sponde anche presso le istituzioni.
Quando il presidente della Repubblica concede la grazia parziale all’omicida che aveva difeso la sua auto, consentendogli così di scontare la pena residua ai servizi sociali, ha certo premiato la condotta serbata dal condannato dopo la condanna e seguito per il resto le regole procedurali; e tuttavia, essendo questo l’unico provvedimento del genere pubblicizzato dalla stampa, Salvini ha potuto subito trasformarlo in un suo successo personale e nell’autorevole conferma della sua campagna propagandistica. Un suggello ancora più esplicito è poi venuto da un magistrato di Venezia, Carlo Nordio (già nominato a suo tempo, da Castelli, presidente della Commissione di riforma del codice penale), che, invocando principi liberali («fino a che punto lo Stato ha diritto di punire una persona che si difende da una aggressione che lo stesso Stato non è riuscito a impedire?»), ha chiesto anche lui di cambiare la norma sulla legittima difesa, perché «chi si difende da un reato non merita di essere indagato» (così il titolo dell’intervista che occupa un’intera pagina del «Corriere» del 29.10.2015). Non poteva mancare la voce della Chiesa, che «radicata nel territorio», si è fatta interprete del sentimento dei fedeli: il vescovo di Chioggia, Adriano Tessarollo si è rivolto pubblicamente alla «signora giudice» di Padova che ha condannato il tabaccaio, ricordandole sul giornale diocesano l’importanza del valore della vita («sarebbe ora che entrasse nella valutazione dei giudici»), preoccupandosi però solo di quella dello sparatore («non ha diritto uno di vivere in pace, senza sentirsi oggetto di angherie, ruberie, aggressioni?»), ironizzando persino sul risarcimento stabilito (per legge) in favore degli eredi del morto («quello che non era riuscito a rubare il ladro da vivo, glielo ha dato il giudice, completando il furto»): quando si dice la carità cristiana!
Ma a gennaio lo scenario sembra mutare: questa volta, sempre nel padovano, un piccolo imprenditore uccide un manager cui doveva del denaro e subito invoca la legittima difesa: ora i protagonisti sono diversi, la parte offesa è un cittadino rispettabile, non ci sono dichiarazioni di sorta, i media attendono di conoscere i fatti. Il «Corriere» però si interroga: com’è che si spara così di frequente? Che cosa è diventata la vita umana? Perché la si può sopprimere per non pagare poche migliaia di euro?; e che «etica è mai questa che non si accorge della patologia che ha lasciato crescere dentro di sé?». Una riflessione, come si vede, pacata, equilibrata e condivisibile. Un’inversione di tendenza?
Non facciamoci illusioni: al primo caso di tentato furto da parte di un extracomunitario finito nel sangue per l’autodifesa armata del proprietario, torneranno alla ribalta i soliti “dichiaranti” pronti a ripeterci che il diritto all’autodifesa è un diritto naturale; le compagnie di giro, poi, reciteranno il loro copione nei talk show e gli imprenditori della paura si affretteranno a presentare l’ennesimo disegno di legge. Un fatto è ormai certo: il sonno della ragione ha generato l’ennesimo mostro e né la società civile, né quella politica hanno sino a oggi dimostrato di possedere gli anticorpi necessari per farvi fronte.